( NEUROSCIENZE ) 2° articolo – STRESS, ANSIA, DEPRESSIONE, I NUOVI NEMICI DA COMBATTERE.

Semiologia delle forme depressive

L’espressione depressione anaclitica è stata introdotta da René Arpad Spitz per indicare la depressione che si manifesta in bambini separati dalla madre per lunghi periodi di tempo dopo essere stati trattati con amorevoli cure.

Nei casi descritti, questi bambini si isolano dal mondo esterno, dagli adulti che li circondano e da quanti tentano di avvicinarli.

I processi di sviluppo manifestano un palese rallentamento con accentuate tendenze regressive.

La depressione anancastica indica una forma di depressione accompagnata da tensione, angoscia, idee ossessive e paranoidi in individui la cui personalità premorbosa era di tipo rigido e ossessivo.

La depressione ansiosa si distingue dall’ansia a sfondo depressivo, perché mentre in quest’ultima il pessimismo è vissuto più come timore che come certezza, e assume l’aspetto del malumore o disforia piuttosto che quello della tristezza o distimia, nella depressione ansiosa l’ansia ha caratteristiche più profonde e si manifesta come sensazione angosciante di morte interiore e di perdita della propria presenza a sé e al mondo.

In questa forma il rischio di suicidio è maggiore che nell’ansia a sfondo depressivo dove, come precisa G. Jervis che ha introdotto questa distinzione, da curare è l’ansia e non la depressione.

La depressione ciclica è caratterizzata da episodi di depressione alternati a episodi di euforia senza che le cause esterne sembrino avere alcun ruolo decisivo nel cambiamento umorale.

La depressione climaterica è una forma di melanconia che accompagna la cessazione delle mestruazioni. Non si può però dimostrare un rapporto fisiologico semplice tra disturbi endocrini e psichici, in quanto le alterazioni endocrine causano effetti molto diversificati a seconda dell’età e della maturità della persona.

Si interpreta questa forma depressiva come una forma melanconica endogena che precipita in occasione di modificazioni ormonali di fondo.

La depressione da esaurimento è un’espressione introdotta da Paul Kielholz per designare una forma particolare di depressione reattiva che sopravviene come conseguenza di un sovraccarico emozionale prolungato o ripetuto. È frequente in uomini affaticati da responsabilità che oltrepassano le loro capacità, e si manifesta con ansia, astenia, diffidenza ed esplosioni affettive inadeguate.

La depressione da sradicamento subentra in occasione di trasferimenti o di emigrazioni che allontanando l’individuo dai luoghi in cui è vissuto determinando la perdita delle sue abitudini e delle relazioni sociali. Questa forma assume anche il nome di nostalgia, termine introdotto nel 1600 per distinguere questa particolare forma depressiva.

La depressione delirante è animata da idee di colpa inespiabile, di rovina irreparabile, di negazione corporea, di possessione e simili. In questo ambito rientra la sindrome di Cotard, in cui il paziente è convinto di dover vivere eternamente per poter espiare in parte le sue colpe, oppure di essere gravato da una colpa così grande da dover ingombrare l’universo, o infine di essere privato di qualche suo organo o dell’intero suo corpo.

La depressione endogena insorge senza cause apparenti per cui si suppone che ‘venga da dentro’ senza poter specificare la natura della sua formazione.

La si interpreta come un dato costituzionale.

La depressione esistenziale è un’espressione introdotta da Heinz Häfner per indicare quella forma depressiva che non ha rapporto con precedenti traumi psichici, ma con tutto il senso della vita, quando il soggetto avverte che gli sfuggono il raggiungimento e la realizzazione di scopi e valori che hanno rappresentato l’aspirazione di tutta la sua vita. Sulla depressione esistenziale Eugenio Borgna ha scritto pagine ineguagliabili.

La depressione involutiva può comparire nella donna tra i 40-50 anni e nell’uomo tra i 50-60 con andamento che di solito è cronico. Si instaura frequentemente dopo sofferenze psichiche o infermità fisiche. Spesso mancano nei precedenti anamnestici del soggetto antecedenti depressivi. La tonalità emotiva è caratterizzata da un profondo pessimismo, relativo alla propria esistenza, che emerge in tutta la sua forza quando la giovinezza è finita e la maturità o la vecchiaia ne prendono il posto.

La depressione nevrotica è dovuta a turbe dell’umore in senso depressivo nel corso delle nevrosi. Si distingue dalla nevrosi reattiva perché nella depressione nevrotica la motivazione non è consaputa. L’abbassamento della tonalità affettiva non è mai molto intenso e, anche se denuncia sentimenti di insicurezza, il soggetto rivela, in questa fase depressiva, una maggior aderenza alla realtà.

La depressione puerperale può verificarsi nella madre, ma anche nel padre, subito dopo il parto. Descritta da Gregory Zilboorg in termini psicodinamici, la depressione puerperale riattiva nella madre un senso di perdita rispetto alla precedente condizione di gravidanza, e nel padre la fantasia inconscia del seno perduto perché ora sarà il bambino ad avere il seno della madre-moglie.

La depressione reattiva è una forma depressiva caratterizzata da una reazione successiva a eventi tristi e luttuosi; come tale, entro certi limiti, è fisiologica e per questo si differenzia dalla depressione endogena.

La depressione stuporosa è interpretata dai più come la manifestazione clinica in cui sfociano le altre forme di melanconia. In questo stato, infatti, si ha un arresto psicomotorio (stupor) con rigidità del volto, fissità dello sguardo assorto, mutismo assoluto e rifiuto del cibo.

I nuovi lineamenti della depressione nella società attuale.

Sappiamo che le sofferenze dell’anima non sono patologie fisse come quelle del corpo, perché subiscono l’influenza dell’atmosfera, del tempo e del clima. Così a partire dagli anni Settanta del 20° sec., la depressione è diventata la forma della sofferenza psichica per eccellenza, liquidando d’un colpo le forme ‘nevrotiche’ che avevano caratterizzato il Novecento, e riducendo di molto le chances della psicoanalisi nata e cresciuta come cura della nevrosi.

La nevrosi, infatti, è un conflitto tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Come conflitto, la nevrosi trova il suo spazio espressivo nelle società della disciplina che si alimentano della contrapposizione tra il permesso e il proibito, un meccanismo che i più adulti conoscono perché regolava l’individualità fino a tutti gli anni Cinquanta e Sessanta. Poi, a partire dal Sessantotto, e via via negli anni successivi, la contrapposizione tra il permesso e il proibito è tramontata, per far spazio a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra il possibile e l’impossibile.

Che significa tutto questo agli effetti della depressione e quindi degli psicofarmaci eccitanti a cui si ricorre come rimedio?

Significa che nel rapporto tra individuo e società la misura dell’individuo ideale non è più data dalla docilità e dall’obbedienza disciplinare, ma dall’iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé.

L’individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa (per cui il vissuto di colpevolezza era il nucleo centrale delle forme depressive), ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, alle sue prestazioni oggettive, per poter raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato.

In questo modo, dagli anni Settanta in poi, la depressione ha cambiato radicalmente forma: non più il conflitto nevrotico tra norma e trasgressione, con conseguente senso di colpa, ma, in uno scenario sociale dove non c’è più norma perché tutto è possibile, il nucleo depressivo origina da un senso di insufficienza per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il valore di sé stesso. Questo mutamento strutturale della depressione, così ben segnalato dal sociologo francese Alain Ehrenberg, ha fatto sì che i sintomi classici della depressione, quali la tristezza, il dolore morale, il senso di colpa, passassero in secondo piano rispetto all’ansia, all’insonnia, all’inibizione, in una parola alla fatica di essere sé stessi. E questo perché in una società dove la norma non è più fondata, come in passato, sull’obbedienza, la disciplina interiore e il senso di colpa, ma sulla responsabilità individuale, sulla capacità di iniziativa, sull’autonomia nelle decisioni e nell’azione, la depressione tende a configurarsi non più come una perdita della gioia di vivere, ma come una patologia dell’azione, e il suo asse sintomatico si sposta dalla tristezza all’inibizione e alla perdita di iniziativa, in un contesto sociale dove ‘realizzare iniziative’ è assunto come criterio unico e decisivo per misurare e valutare il valore di una persona. Di qui il ricorso agli psicofarmaci stimolanti, quando non alla cocaina, per attutire l’ansia parossistica, oppure la perdita più o meno estesa di iniziativa, l’inibizione all’azione, il senso di fallimento e di scacco, fattori questi che entrano in implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di successo che dalla società odierna vengono considerati essenziali per riconoscere dignità e significanza esistenziale a ciascuno di noi.

A questo proposito già Freud, considerando le richieste che la società esige dai singoli individui, a più riprese si chiedeva se alle volte «non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e magari tutto il genere umano, sono diventati ‘nevrotici’ per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? […]

Pertanto non provo indignazione quando sento chi, considerate le mete a cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l’esito non possa essere per il singolo altro che intollerabile» .

(Das Unbehagen der Kultur, 1929; trad. it. Il disagio della civiltà in Opere, 10° vol., 1967-1993, pp. 629-30).

Questa intollerabilità, a parere di Freud, è dovuta all’eccesso di regole che governano le società civili, e ciò gli consente di iscrivere la depressione nel novero delle ‘nevrosi’, dove si registra il conflitto tra norma e trasgressione, con conseguente vissuto di colpevolezza.

Oggi le norme limitative non esistono più, per cui ciò che un tempo era proibito è sfumato nel possibile e nel consentito.

Per effetto di questo slittamento oggi la depressione non si presenta più come un conflitto e quindi come una ‘nevrosi’, ma come un fallimento nella capacità di spingere il possibile fino al limite dell’impossibile.

E quando l’orizzonte di riferimento non è più in ordine a ciò che è permesso, ma in ordine a ciò che è possibile, la domanda che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è più:

«Ho il diritto di compiere questa azione?», ma «Sono in grado di compiere questa azione?».

Quel che è saltato nella nostra attuale società è il concetto di limite.

E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo non può che essere di inadeguatezza, quando non di ansia, e infine di inibizione. Tratti, questi, che entrano in collisione con l’immagine che la società richiede a ciascuno di noi. E la coscienza di questo crudele fallimento sul piano della responsabilità e dell’iniziativa, o anche sul piano del mancato sfruttamento di una possibilità, amplifica immediatamente i confini della sofferenza e dell’inadeguatezza che sono presenti in ogni depressione e che i modelli sociali dominanti rendono ancora più dolorose e talora insanabili.

Di qui il ricorso massiccio agli psicofarmaci tonificanti o alla cocaina.

A partire da queste premesse possiamo scorgere l’origine dell’odierna depressione in due cambiamenti di tendenza registrati negli ultimi quarant’anni della nostra storia circa il modo di concepire l’individuo e le possibilità della sua azione.

Il primo cambiamento si è registrato verso la fine degli anni Sessanta, quando la parola d’ordine dell’intero continente giovanile era emancipazione all’insegna del ‘tutto è possibile’, per cui: la famiglia è una camera a gas, la scuola una caserma, il lavoro e, il suo ‘rovescio’ il consumismo, un’alienazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve liberare (‘vietato vietare’). Una libertà di costumi fino allora sconosciuta si coniuga a un progresso delle condizioni materiali, e nuove prospettive di vita diventano una realtà tangibile nel corso del decennio. Se la follia, nel comune sentire dei primi anni Settanta, appare come il simbolo dell’oppressione sociale e non più come una malattia mentale, questo è appunto dovuto al fatto che tutto è possibile: il pazzo non è malato, è solo diverso, e soffre proprio per la mancata accettazione della sua diversità.

Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto aveva pensato in termini sociali, si impianta, per uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di importazione americana, giocata però a livello individuale, dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di limite spinto all’infinito, per cui oggi ci si chiede: qual è il limite tra un ritocco di chirurgia estetica e la trasformazione del proprio corpo dettata dalla paura della vecchiaia, tra un’abile gestione dei propri umori attraverso farmaci psicotropi e la trasformazione in robot chimici o in veri e propri drogati, tra le strategie di seduzione troppo spinte e l’abuso sessuale, tra il riconoscimento dei diritti degli omosessuali e il diritto all’adozione, tra il desiderio di avere figli e le tecniche artificiali per ottenerli, tra il diritto alla salute e al prolungamento della vita e la manipolazione genetica?

E questo solo per fare degli esempi che dimostrano come le frontiere della persona e quelle tra le persone determinano un tale stato d’allarme da non sapere più chi è chi.

Come scrive Augustin Jeanneau:

«La liberazione sessuale ha sostituito la preoccupazione di sbagliare con la preoccupazione di essere normali» .

(Les risques d’une époque ou le narcissisme du dehors, 1986, p. 15).

Espressione sintomatica del cambiamento, non dissimile da quella segnalata da Vidiadhar S. Naipaul:

«Non potevo più rassegnarmi al destino. Il mio destino non era di essere buono, secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna.

Ma in che modo?

Che cosa avevo da offrire?

L’inquietudine cominciava a mangiarmi dentro» .

(A bend in the river, 1979; trad. it. Alla curva del fiume, 1982, p.88).

E allora psicofarmaci, e se vogliamo anche un certo piacere: cocaina. Tra l’odierna depressione e la dipendenza da cocaina c’è infatti un parallelismo che approda a una sorta di complementarità. E questo perché sia la depressione sia la tossicodipendenza, per differenti che possano apparire, esprimono la patologia di un individuo che non è mai sufficientemente sé stesso, mai sufficientemente colmo di identità, mai sufficientemente attivo, perché troppo indeciso, troppo titubante, troppo ansioso, per cui depressione e tossicodipendenza sono come il diritto e il rovescio di una medesima patologia dell’insufficienza.

Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione odierna, attiva la dipendenza da psicofarmaci o da cocaina per le promesse di onnipotenza che prospettano, lasciando intravedere la possibilità di infrangere la barriera che ci separa da quella meta agognata dove ‘tutto è possibile’, ‘tutto è permesso’. In questo modo si radicalizza la figura dell’individuo sovrano che paga naturalmente il conto con la schiavitù della dipendenza, che è poi il prezzo della libertà illimitata che l’individuo si assegna.

Alimentando l’immaginario con l’illusione di poter maneggiare illimitatamente la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle droghe ‘sporche’, psicofarmaci e cocaina sopprimono i sintomi della depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a cui siamo chiamati e, accelerando la corsa, ci rendono perfettamente conformi alle richieste sociali.

Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti, gli psicofarmaci e la cocaina inducono il soggetto a superare sé stesso, senza essere mai sé stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze efficientistiche e afinalistiche della nostra società, con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione della vita emozionale, omologazione alle norme di socializzazione richieste dalla nostra società, a cui fanno più comodo robot automatizzati e automi impersonali, che soggetti capaci di essere sé stessi e di riflettere sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica di vivere.

Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia Friedrich Nietzsche annunciava profeticamente «l’avvento dell’individuo sovrano, uguale soltanto a sé stesso, riscattato dall’eticità dei costumi».

(Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, 1887; trad. it. in Opere, 6° vol., 2, 1968, p. 257).

Oggi, a più di cento anni dalla morte di Nietzsche, possiamo dire che l’emancipazione ci ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e dallo spirito d’obbedienza, ma ci ha innegabilmente condannato al parossismo della prestazione, dell’iniziativa e dell’azione, nella più assoluta incapacità di essere sé stessi al di là delle richieste sociali di efficienza, iniziativa, rapidità di decisione e di azione, di cui non è dato scorgere il limite.

Paolo   Di Credico